Ciao care amiche lettrici, eccomi di nuovo qui con voi in questa fase post festività per parlarvi di un romanzo piuttosto datato, ma che durante le feste volevo assolutamente recuperare, dato che ne ho sentito parlare così tanto che mi sembrava il minimo poter affacciarmi anch’io al quartiere de La Fortezza, il pietoso e devastante scenario in cui è ambientata la tragica storia d’amore di Alfredo e Beatrice nel primo romanzo di Valentina D’Urbano: Il rumore dei tuoi passi, pubblicato dalla casa editrice Longanesi nel maggio 2012.
TITOLO: Il rumore dei tuoi passi
AUTRICE: Valentina D’Urbano
CASA EDITRICE: Longanesi
PREZZO: eBook 4,99€
TRAMA: In un luogo fatto di polvere, dove ogni cosa ha un soprannome, dove il quartiere in cui sono nati e cresciuti è chiamato “la Fortezza”, Beatrice e Alfredo sono per tutti “i gemelli”. I due però non hanno in comune il sangue, ma qualcosa di più profondo. A legarli è un’amicizia ruvida come l’intonaco sbrecciato dei palazzi in cui abitano, nata quando erano bambini e sopravvissuta a tutto ciò che di oscuro la vita può regalare. Un’amicizia che cresce con loro fino a diventare un amore selvaggio, graffiante come vetro spezzato, delicato e luminoso come un girasole. Un amore nato nonostante tutto e tutti, nonostante loro stessi per primi. Ma alle soglie dei vent’anni, la voce di Beatrice è stanca e strozzata. E il cuore fragile di Alfredo ha perso i suoi colori. Perché tutto sta per cambiare.
RECENSIONE:
Sinceramente sono così spiazzata, attonita, devastata che non saprei neanche da dove cominciare.
Quindi direi di partire proprio dal principio, da come è cominciato questo mio viaggio – perché è di questo che si parla quando si legge questo libro – nella Fortezza. Un viaggio terreno, temporale, sentimentale, attraverso ricordi, dolori, momenti, tragedie e devastazione completa.
Se ho deciso di prendere tra le mani questo romanzo è perché proprio nel gruppo Facebook della nostra Ilaria ho colto sempre un sincero ma triste entusiasmo per questo romanzo, tanto che molte di voi lo hanno consigliato con molta foga e a gran voce, quindi non sono proprio riuscita ad ignorare i vostri scalpitanti consigli. Per non parlare del fatto che dopo aver letto Non aspettare la notte della stessa autrice ed averlo considerato uno dei libri migliori dell’anno, imbattermi in un altro lavoro della D’Urbano mi sembrava d’obbligo.
Ad ogni modo, ero preparata all’angoscia che questa autrice emana, perché il suo stile è così graffiante, ruvido, spietato che incute sempre una sensazione di sgomento e di inquietudine. Beh, tutto ciò che ho provato in Non aspettare la notte, l’ho rivissuto in maniera amplificata in questo romanzo qui.
La storia, sin dalla prima pagina, trasmette una sensazione di resa, di passività, di sconfitta. Il quartiere della Fortezza è un posto dimenticato, abbandonato, sperduto, in cui speranza e futuro sono concetti completamente astratti, anzi, addirittura estinti. Nella Fortezza non si spera, non si crede, non si sogna più.
La povertà, la disperazione, l’ignoranza, l’illegalità fanno da padroni indiscussi, schiacciano degli abitanti che accettano di buon grado di essere ritagliati nel loro piccolo angolo di mondo, lontano dalle città, dalle vite normali, dalla possibilità di un futuro sano, che non sia macchiato di sangue, alcool, droga e miseria.
Un mondo che, francamente, loro non conoscono, e a cui non ambiscono nemmeno. Del resto, come si può desiderare qualcosa che non si conosce?
L’unica che sembra voler uscire da quella gabbia di edifici fatiscenti, intonachi scrostati, frammenti di vetro, polvere da sparo, urla echeggianti, è proprio Beatrice. La forte, temeraria, testarda, a tratti incomprensibile e insopportabile Beatrice. Mentre Alfredo, beh, lui è esattamente l’emblema della Fortezza: si è arreso all’ineluttabilità del suo destino, vive con un padre violento e con problemi di alcolismo e rimpiange la morte di una madre che non ha mai conosciuto. Un personaggio che, per quanto profondo, ho trovato fin troppo debole e codardo.
Attraverso la voce narrante di Beatrice veniamo catapultati negli anni Ottanta, negli anni del degrado e della devastazione, della delinquenza e della spregiudicatezza. Beatrice ci racconta del suo malato e incomprensibile rapporto di odio-amore con Alfredo, il loro rapporto che nasce come una tenera amicizia ma che si trasforma in un amore rabbioso, latente, soffocante. Un rapporto ambiguo e ambivalente, ma così forte da unirli indistricabilmente.
Da unirli così tanto da renderli simili. “I gemelli”, è così che li definiscono gli abitanti del paese. Quei due ragazzini con gli stessi modi di agire, parlare, comportarsi, atteggiarsi. Che trascorrevano così tanto tempo insieme da sembrare in perfetta simbiosi.
La polvere da sparo, l’odore del sangue e delle lenzuola che lo assorbono. Trucioli sottili di segatura che ti si infilano nei capelli e non li togli più. L’alito fetido degli angoli scuri. Vino scadente, umanità degradata.
La luce azzurrina delle terrazze dove non batte mai il sole, quella artificiale giallastra,spesso spenta, dei pianerottoli. Il tramonto riflesso sulle schegge di bottiglie rotte sull’asfalto, che brillano come diamanti.I fari nella notte, gli stop che ammiccano, il riflesso bluastro delle tv accese negli appartamenti bui.
Il rumore dei tuoi passi, il tuo odore che svanisce sul cuscino, la luce del giorno in cui mi hai lasciato sola.
Tuttavia, non ho una chiara e netta idea conclusiva di questo romanzo: è profondamente e morbosamente coinvolgente, ma è anche di una negatività troppo urticante.
Un romanzo forte, d’urto, che sembra graffiare. Un romanzo che incute profonda tristezza e grande rammarico. Sensazioni così forti che faccio fatica ad identificare e ad improntare. Ho colto una negatività troppo radicata, un senso di sconfitta così straziante da lasciarmi davvero devastata. Non sono mai riuscita a scorgere nemmeno in lontananza una parvenza di luce, è come leggere sempre nel buio, un buio soffocante, che ti trascina e ti inghiotte, per poi sputarti fuori solo quando chiudi il libro, con un senso di spossatezza e stanchezza. Perché questo romanzo è un impegno bello e buono: è duro, forte, pesante, ti mangia, ti corrode, ti consuma.
E quando l’ho finito non sapevo se tirare un sospiro di sollievo perché finalmente ero giunta al termine di quella fastidiosa agonia, o se essere triste perché, cavolo, come ti rapisce la D’urbano non ci riesce nessuno.
Oggi, alla fine di questo secondo romanzo targato Valentina D’Urbano, sono giunta alla conclusione che quest’autrice ha un talento innato. Sì, sinceramente trovo il suo modus operandi troppo spigoloso e pesante, cupo e inquietante, ma riesce sempre a comunicare qualcosa.
Ed essere un vero scrittore è proprio questo: lasciare qualcosa, nel bene e nel male.
E lei, amiche mie, credetemi: ci riesce sempre!
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Alessia D.
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